SPECIALE TIFO: Serbia, Croazia o ex-Jugoslavia, Che dir si voglia...

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PADOVA SUD
view post Posted on 13/11/2009, 17:35 by: PADOVA SUD     +1   -1




Fonte: www.sportvintage.it

Non ci vidi più. Mi avventai su un poliziotto e gli gridai: “Vergognatevi. State massacrando i bambini.” Lui mi colpì due volte urlando: “Brutto figlio di puttana. Sei come tutti gli altri!” A quel punto ebbi una reazione d’istinto. Gli fratturai la mascella con una ginocchiata.

Zvonimir Boban


Ad appena ventun anni il giovanissimo Zvonimir Boban si era già guadagnato i galloni di capitano della Dinamo Zagabria, e in un’intervista di cinque anni dopo ricordò con queste parole le proprie gesta di quel pomeriggio del 13 maggio 1990. Per la Croazia, la sua futura patria, lui diventò un eroe, mentre il poliziotto che si sorbì in faccia l’eroica ginocchiata personificò l’oppressione dei serbi, l’etnia dominante nella federazione jugoslava ormai al capolinea. Poco importa se in realtà lo sfortunato agente della Milicija, come si chiamava allora la polizia federale jugoslava, non fosse affatto un serbo, ma un bosniaco musulmano, e che, all’esatto opposto di un oppressore, appartenesse a una delle popolazioni più bistrattate della federazione. E per la leggenda ancora meno importa che, nonostante fosse di religione islamica, porgesse cristianamente l’altra guancia, anzi l’altra mascella, non soltanto perdonando a Boban quella ginocchiata, ma anche affermando di comprenderne le ragioni.

Gli incidenti scoppiati quel giorno allo stadio Maksimir di Zagabria tra gli ultras della Dinamo, i Bad Blue Boys (il nome si ispira a Bad Boys, un mediocre film del 1983 con Sean Penn ambientato tra la galassia delle bande giovanili americane), e quelli ospiti della Stella Rossa di Belgrado, i sedicenti Delije, un termine corrispondente a Eroi, e originato da un canto serbo di epoca ottomana che recitava: “gli eroi iniziano la danza di guerra e il rumore si ode a Istanbul“, non traevano origine dalla semplice rivalità calcistica.

La prima concreta avvisaglia del furore nazionalista, che era arrivato a dilagare negli stadi di calcio jugoslavi, si era avuta poco più di un anno prima, il 19 marzo 1989 a Belgrado, quando la solita Dinamo aveva affrontato e sconfitto l’altra squadra belgradese del Partizan. In quell’occasione furono i tifosi ospiti croati a provocare i disordini, festeggiando la prestigiosa vittoria a modo loro: con tiri di petardi, fumogeni e bengala all’uscita dallo stadio. La reazione dei loro rivali serbi non si fece attendere, e si scatenò tra un fitto lancio di pietre, degenerando alla fine in una vera e propria guerriglia urbana, con tanto di scontri corpo a corpo e mezzi pubblici incendiati. Il tutto in un sottofondo di cori guerreschi dai toni più sciovinistici che patriottici.

Eppure in Jugoslavia le tifoserie ultras si erano formate in netto ritardo rispetto ai paesi dell’Europa occidentale. Fatta eccezione per un episodio isolato nel settembre 1978, quando i supporters del Partizan di Belgrado seminarono il panico sul treno che li doveva portare a Sarajevo per la partita contro la squadra locale, i primi gruppi organizzati avevano visto la luce solo nel 1982. Inizialmente erano limitati alle due squadre principali di Belgrado, la Stella Rossa ed il Partizan. Ma già alla metà degli anni ottanta il fenomeno si era esteso, per spirito di emulazione verso i più noti hooligans inglesi, a tutte le città più importanti del paese.

Anche se rispetto agli altri paesi dell’est europeo la Jugoslavia godeva di un indiscutibile grado di apertura, era pur sempre governata da un regime totalitario e sorvegliata da una polizia asfissiante, che non esitava a ricorrere al pugno di ferro per reprimere i minimi segnali di turbolenza negli stadi. Ma dal 1989, con le liberalizzazioni introdotte dal nuovo primo ministro della federazione Ante Marković, furono indette le prime elezioni libere in tutte le repubbliche, e di conseguenza anche la morsa poliziesca si allentò bruscamente. I sentimenti di identità nazionali, che dal secondo dopoguerra erano stati solo ibernati all’interno della Jugoslavia socialista, poterono esprimersi di nuovo con la loro carica dirompente. Nella Croazia, che durante la seconda guerra mondiale aveva conosciuto una breve indipendenza sotto il regime degli Ustaše (Ustascia) di Ante Pavelić, emerse la leadership dell’HDZ (Hrvatska Demokratska Zajednica), l’Unione Democratica Croata, ovvero il movimento indipendentista guidato dal futuro presidente della repubblica Franjo Tudjman.

Alle prime elezioni libere del 7 maggio 1990 proprio l’HDZ ottenne una larghissima maggioranza parlamentare, al termine di una campagna elettorale impostata su toni di feroce contrapposizione nei confronti della Repubblica Serba, di fatto la nazione accentratrice, governata a propria volta da un leader rampante ugualmente nazionalista ed estremista: Slobodan Milošević.

In questa atmosfera già surriscaldata fino al parossismo, anche il calendario del campionato jugoslavo di calcio ci mise lo zampino, e solo sei giorni dopo, il 13 maggio, fece incontrare a Zagabria il simbolo dell’orgoglio calcistico croato, la Dinamo, proprio con il suo corrispondente serbo, la Stella Rossa di Belgrado.

I giovani tifosi belgradesi, i Delije, capeggiati da un meno giovane signore di quasi quarant’anni che si chiamava Željko Ražnatović, divenuto poi tristemente noto col nome di battaglia di Arkan, arrivarono nella capitale croata in tremila.

Lo stesso Arkan, in un’intervista datata novembre 1994 al giornale di Belgrado L’unità serba, affermò di avere “previsto la guerra proprio in seguito a quella partita a Zagabria”, quasi come se si fosse trattato di un addestramento militare. E, già durante il viaggio in treno i suoi Delije, non ancora confluiti nei famigerati corpi paramilitari delle Tigri, si comportarono come un’orda incontrollabile, devastando le carrozze e terrorizzando i passeggeri. Poi, una volta scesi alla stazione di Zagabria non riuscirono a trattenersi dal fracassare la maggior parte delle vetrine dei negozi lungo il cammino verso lo stadio Maksimir.

Dentro lo stadio, anche gli ultras croati, i cosiddetti Bad Blue Boys, ci tennero a non essere da meno dei loro odiati nemici, e prepararono il terreno per la rissa intonando cori di provocazione nei loro confronti. E, a riprova che gli incidenti non furono preventivamente ideati da una parte sola, il giornalista statunitense Franklin Foer, nel suo libro How Football explains the World, ha ricordato come una grande quantità di pietre e combustibili vennero accuratamente stipati e nascosti all’interno del Maksimir dai tifosi della Dinamo Zagabria già prima della partita.

La tensione salì rapidamente. Non appena l’altoparlante dello stadio interruppe la diffusione della musica rock per cominciare a sciorinare le formazioni delle due squadre, la debole polizia presente perse completamente il controllo della situazione. I tifosi serbi scavalcarono in massa le deboli recinzioni ed invasero la gradinata superiore della loro curva, fortunatamente deserta di spettatori. In preda a una foga distruttrice divelsero tutti gli unici oggetti inanimati più deboli del cemento, accanendosi particolarmente nei confronti dei cartelloni pubblicitari e dei seggiolini di plastica, che presero a lanciare in aria come dei freesbee.

Mentre la milicija, in un anacronistico assetto antisommossa, e con un curioso elmetto a scodella in testa, restava con le mani dietro la schiena a godersi lo show, alcuni tra i più temerari ultras croati passarono al contrattacco. Ma, sopraggiunti in larga inferiorità numerica nel settore belgradese, vennero presi a calci, pugni e spintoni. I violenti scontri corpo a corpo, si svolgevano, per fortuna, ancora a mani nude. Solo un anno dopo però, molti tra i tifosi organizzati più bellicosi di queste due squadre avrebbero potuto coronare i propri sogni di guerra, arruolandosi tra le unità irregolari, e imbracciando fucili e pistole vere sui campi di battaglia della Slavonia, della Krajina e della Bosnia. E alla memoria di quelli che non sarebbero riusciti a tornare a casa, lo stato croato dedicherà alla fine della guerra un imbarazzante monumento proprio davanti allo stadio Maksimir con questa iscrizione:

Ai sostenitori della squadra che su questo terreno iniziarono la guerra contro la Serbia il 13 maggio 1990.

In questa “guerra in miniatura”, che dagli spalti si spostò sul campo di calcio, facendo rifluire di corsa negli spogliatoi i giocatori terrorizzati (tranne l’impavido Boban e pochi altri), fu forse un miracolo se non ci scappò il morto. Infatti, i supporters zagabresi, per correre in difesa dei loro compagni in difficoltà nel settore avverso, ruppero le recinzioni, e invasero in massa il campo di calcio. I più avanzati di loro giunsero alla curva opposta e riuscirono ad impossessarsi degli striscioni della tifoseria belgradese, che sventolarono come trofei di guerra tra il tripudio dello stadio.

A questo punto, anche la sonnolenta milicija fu costretta a scuotersi dal piacevole torpore di quel mite ed assolato pomeriggio di maggio, e ad entrare in azione. Di malavoglia, i poliziotti estrassero i manganelli, lanciarono i lacrimogeni, e fecero intervenire i goffi e vetusti veicoli antincendio dal muso sporgente. Ma, mentre i tremila Delije belgradesi rientravano spaventati nei ranghi del loro settore, i ben più numerosi Bad Blue Boys croati, inferociti per l’intervento, benché fiacco, della polizia federale, si diedero anima e corpo alla guerriglia.

Inevitabilmente in tanti si fecero male. E tra i settanta minuti di battaglia all’interno del Maksimir e le altre tre ore fuori in città, si contarono 59 feriti tra i tifosi e 79 tra gli agenti della Milicija, 17 tram e alcune decine di auto in sosta devastate, oltre a 132 persone arrestate.

I giornali del giorno dopo, sia croati che serbi, non enfatizzarono troppo la portata degli scontri di Zagabria, e ne attribuirono le cause a un generico teppismo da stadio. Ma solo pochi mesi dopo, il 26 settembre 1990 questa volta a Spalato, all’apertura dell’ultimo campionato di calcio della Jugoslavia unita, un’altra partita, Hajduk-Partizan Belgrado divenne la scintilla per nuovi incidenti a sfondo etnico. Quando nel corso del secondo tempo il Partizan conduceva per 2-0, i giovani ultras spalatini invasero il campo e chiesero a gran voce la costituzione di una lega calcistica croata separata da quella jugoslava. Ai croati il Partizan era ancora più inviso della Stella Rossa, essendo storicamente la squadra dell’esercito e della polizia jugoslavi. E, per un curioso incidente della storia, proprio Franjo Tudjman ricoprì la carica di presidente del Partizan nel corso degli anni ‘50, quando era ancora un generale dell’esercito jugoslavo.

In quest’ultima occasione i tifosi non si limitarono a invadere il campo a mani nude, ma facendo un passetto qualitativo in avanti, si portarono dietro anche le spranghe. E, come segnale che gli animi si stavano pericolosamente infiammando anche sul piano politico, ammainarono la bandiera jugoslava con la stella rossa al centro, che campeggiava sul pennone più alto dello stadio, per sostituirla con quella croata con lo scudo a scacchi.

Dalla guerra del 1991, oltre che sull’intera ex-Jugoslavia, una lunga notte calò anche sul suo calcio. E si dovette attendere il 18 agosto 1999 per poter rivedere assieme in campo le formazioni serbe e croate. Finalmente questa fu la volta buona, e allo stadio della Stella Rossa di Belgrado, detto anche Marakana (con la kappa per distinguerlo dall’originale), sugli animi spenti da quasi cinque anni di conflitto sanguinoso la tranquillità prevalse sulla violenza. Ma un autentico fair play era (ed è anche oggi) ancora lontano. E, raccontando la cronaca di quella partita l’inviato di Repubblica scrisse che all’intonare del proprio inno nazionale “gli undici giocatori croati tennero per due minuti tutti la mano sul cuore, e i cinquantamila spettatori serbi in tribuna il dito medio alzato.”


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